Diciamo la verità, oggi, a meno che non abbiate cento anni o siate luddisti per posa, chi non è iscritto almeno ad una piattaforma social?
Social Media, appunto.
Tutti abbiamo il nostro bagaglio di certezze sul corretto utilizzo dello strumento, tutti siamo manager assoluti del nostro account, anche perché, in fondo che ci vuole?
Postare, taggare, flaggare, Googlare, bannare, scrollare, trollare, followare e spammare è facile, anche un bimbo ci riesce (probabilmente molto meglio di tanti adulti!).
In fondo siamo tutti un po’ influencer, magari solo in seno al nostro condominio, ma raccogliere i quotidiani 7 o 8 like, prontamente ricambiati, per alimentare la community, certamente allieta la giornata.
Poi c’è la disfida tra le armate boomer, i maledetti X e i letali Z, continuamente affannati a misurarsi in tenzoni più o meno reciprocamente razziste, su competenze, comprensione del testo, conoscenza della lingua italiana o della storia, attendibilità, noia e chi più ne ha più ne metta.
È il quotidiano del cittadino medio, che grazie alla protesi del braccio con tecnologia 5G, è costantemente collegato, in ansia per le sorti dell’ultima frase di Osho o dell’originalissimo meme (con solo 25 milioni di visualizzazioni) o ancora della sagace risposta al VIP, pubblicata mentre in bagno aspetta che il flusso naturale faccia il suo corso.
Niente di pericoloso o di trascendentale fino a che qualcuno dei tanti non decide di fare il salto di qualità, diventando consulente o Social Media Manager di aziende ed enti pubblici, forte della propria esperienza domestica e dei propri 3.980 follower personali.
In fondo che ci vuole?
Si, la medesima domanda che ci ha fatto avvicinare allo strumento, diventa la benzina di chi decide di cambiare vita, cucendosi addosso il ruolo da esperto che, se si tratta della propria azienda, poco male, il danno è limitato alle pareti domestiche, ma se è espresso sul mercato diventa un problema di non poco conto.
Al cliente/datore di lavoro si propone un unico obiettivo: “Caccia al like” ad ogni costo.
Una pagina con molti like è una pagina vincente, infatti come recita ogni manualetto del perfetto SMM o l’insegnante del corso organizzato dal comitato di quartiere: ogni “mi piace” rappresenta un lead ovvero un potenziale cliente che è lì e aspetta solo di essere imboccato dai nostri post per diventare un formidabile cliente alto spendente.
In fondo che ci vuole?
Poco importa se l’unica certezza che abbiamo è il DOVE trovarli (siamo con loro su una piattaforma che ci dovrebbe permettere di interagire), ma non si ha la più pallida idea di chi siano i nostri interlocutori, di quando è opportuno intercettarli, o se non si è stabilito il motivo per cui e di che cosa e in che modo vogliamo parlare con loro, sono solo dettagli da arroganti e spocchiosi esperti che dedicano gran parte della loro vita a studiare e approfondire la materia, ma a chi servono, per giunta costano pure troppo.
Ma non disperdiamoci in quisquiglie, continuiamo a seguire il cammino dell’eroe, che sostanzialmente si suddivide i tre step:
Primo step – Pubblicazione selvaggia
Si riempiono le pagine aziendali di post che riguardano tutto lo scibile umano, generando, soprattutto in un primo momento, ammirazione nel cliente che vede tanto lavoro e dedizione “del resto i tempi di raccolta in questo mondo sono mediamente lunghi!” e si sente appagato di avere una pagina ricca di contenuti.
Secondo step – Sponsorizziamo
Nonostante la copiosa quantità di post pubblicati la pagina cresce lentamente e ai primi segnali di nervosismo da parte del cliente si entra nella fase “Oncologo con malato terminale” ovvero la somministrazione della terapia d’urto: “è necessario iniziare una massiccia campagna di sponsorizzazione!”. Eh sì, è necessario raggiungere il mercato, alzare la voce, permettere a tutti di vederci e di apprezzarci, dobbiamo uscire a tappeto sulle bacheche di tutti, solo così i like arriveranno come se piovesse.
Il cliente non può sottrarsi, comprende che per spingere la pagina bisogna aprire il portafoglio.
Ecco allora il nostro baldo esperto che lancerà una raffica di inserzioni, targettizzate geograficamente e in un range di età tra i 18 e i 65 anni, con la promessa di un universo, a seconda dell’area geografica interessata, di centinaia di migliaia di potenziali contattati che arriveranno come topi in file ordinate dietro al Pifferaio Magico, a ondate previste tra i 7.500 e 15.000 al giorno, così dai pochi euro iniziali, si passerà alle centinaia di euro a regime, soprattutto grazie ai compulsivi che garantiranno un po’ di “mi piace” a giustificazione della spesa sostenuta.
Così la casalinga residente entro un raggio di 100 km dall’azienda in questione, si troverà ad essere invitata ad interagire con il Cementificio che offre un sostanziale sconto per chi acquista due pedane di calce idrata o il signor Mario di Pontedera riceverà l’avviso dell’interruzione della raccolta differenziata nel giorno del patrono, a Villasimius.
Intanto il cliente avrà sviluppato una sorta di ludopatia per le sponsorizzate che alla prima analisi semestrale di bilancio si trasformerà in furia omicida verso il SMM.
Terzo step – I social non servono a nulla
Il povero cliente, ancora sotto sedativi, allontanato l’esperto, che inutilmente avrà spiegato che è la crisi globale o la guerra in Ucraina ad aver generato il flop, osserva mesto che, a fronte di un investimento notevole in inserzioni sponsorizzate (le parcelle dell’esperto normalmente incidono poco perché siffatti esperti sfondano nel mercato in quanto si fanno retribuire con una ciotola di riso e quattro soldi di cacio: “è la quantità che fa la differenza!!!”), non ha migliorato il fatturato, nonostante i like alla pagina siano notevolmente aumentati, avendo anche acconsentito all’acquisto di 25.000 simpatizzanti per la modica cifra di € 200, dando poca importanza al fatto che si chiamano Mustafà Kalim o Abdul Ghafoor e risiedono principalmente a Doha in Qatar, e nonostante si sia pubblicata una media di 12 post alla settimana per mezzo anno.
La conclusione più naturale sarà l’indistruttibile certezza che:
- I social media non servono a nulla
- I social media sono una truffa legalizzata
- I social media manager sono un’accolita di malfattori che approfittano delle aziende.
Con buona pace delle agenzie e dei professionisti seri.
Vi starete domandano dove sia finito il nostro imbattibile Social Manager.
Facile a dirsi, sarà certamente al servizio di un’altra azienda, attratta più dall’esiguità dei suoi compensi che dalle sue reali competenze e che entro sei mesi entrerà nella schiera delle aziende disilluse che preferiranno operare con un marketing tradizionale basato sul porta a porta e sulle relazioni personali.